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Paese mio


Il viaggio di ritorno avveniva attraverso la strada delle botteghe dei vasai che erano concentrate in un rione chiamato “Vucalari”. Qui la creta veniva impastata con molta acqua e poi calpestata con i piedi, per renderla plasmabile.
La creta dopo veniva foggiata col tornio, azionato con i piedi e le mani esperte del vasaio, davano la forma a recipienti di terracotta, i “vucali”. Questi oggetti venivano esposti al sole ad asciugare e poi cotti nella fornace. Mi ricordo che da piccolo, un mio amico, durante l’estate svolgeva l’attività di apprendista dai “mastru vucalaru” e realizzava dei piccoli vasi di terracotta, chiamati “rasticeddi”.
In una di quelle giornate di agosto ho assistito anche all’addio dalle proprie radici, di giovani che lasciano la propria terra per emigrare verso altre speranze di vita.
Stavamo per ritornare a casa da una giornata al mare, quando sentiamo il fischio del treno RAPIDO e uno di noi dice: “Questa sera parte mio cugino per Milano, andiamo a salutarlo”. Arrivammo appena in tempo, questo ragazzo, con le lacrime agli occhi, fece in tempo a salutarci dal finestrino e con un fischio tutto terminò, con la speranza di rivederci al più presto.
Quel RAPIDO, dopo poco tempo rapì anche me, e i giovani poco alla volta abbandonarono il mio paese.
Vi ricordate quella vecchia canzone dei Ricchi e Poveri: “Che sarà”?

 
“Paese mio che stai sulla collina
 
Disteso come un vecchio addormentato
 
La noia, l’abbandono, il niente sono la tua malattia.
Paese mio ti lascio, io vado via…”
 
 
 
In Calabria si è verificata una selezione naturale, molti sono emigrati, perché non c’era lavoro per tutti. Quei pochi che sono rimasti, vivono bene. Hanno la casa ristrutturata, la macchina nuova, la casa in campagna con l’orticello, il maiale e le galline. Non hanno il cinema o il teatro, ma in compenso stanno bene, l’aria è pulita, l’alimentazione naturale, non c’è stress, e i rapporti sociali sono genuini e vitali.
Così in una Calabria immutabile, qualcosa può cambiare ma tutto resta stagnante.
FINE
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